Sono anche i sapori che formano i saperi, quelli che affondano le radici nei territori. Attraverso il cibo a chimometro zero, come va di moda dire oggi, siamo cresciuti nella nostra identità familiare, prima e sociale, poi.
Così si tramandano le tradizioni di famiglia che niente hanno a che fare con la cucina internazionale, stucchevole, che mortifica i palati. Eppure la nouvelle cuisine tende a uniformare ciò che non può essere uniformato.
La frittata con le cipolle, le polpette con la mortadella e la gallina con gli amaretti alla cremonese, di nonna Adele, il coniglio arrosto alla bresciana di nonna Orsola, sono tra i miei ricordi più vivi. Sento ancora i profumi. Cibi semplici che ci riportano all’infanzia e alle nostre origini. Ma c’erano anche le cicorie di campo spadellate con tanto aglio, gli asparagi selvatici, la marmellata di prugna, la torta di mele cotogne.
Per me, che sono donna di fiume e di lago, c’è anche una certa predilezione per l’anguilla alla brace e i pesciolini di fosso fritti. Ma ognuno di noi custodisce dentro di sé questo patrimonio. Un patrimonio che non bisogna perdere con una cucina sempre più globalizzata.
Non è un peccato naturalmente, quando si viaggia in altri paesi indugiare sulla cucina locale, anzi questo è un buon segnale di apprezzamento dei luoghi. Ma quando siamo nei nostri territori omaggiamo anche a tavola ciò che essi ci offrono.
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